Le piazze vuote dell’opera di de Chirico possono facilmente richiamare la desolazione in cui ci siamo imbattuti più volte in questo periodo di quarantena, trovandoci di fronte ai nostri centri disabitati. Quali riflessioni può offrirci il percorso artistico del “pittore metafisico” per leggere questo momento di isolamento e, più in generale, il nostro tempo? Lasciamoci ispirare, ripercorrendo la sequenza proposta recentemente nella mostra di Palazzo Reale a Milano. Proviamo ad interrogarci sugli effetti a livello psicologico degli improvvisi e importanti cambiamenti sociali che stiamo affrontando grazie all’intuito e all’arte di de Chirico, che ci offre interessanti spunti di riflessione in merito.
Ponendosi come precursore del surrealismo, e senza nemmeno riconoscersi in questa definizione, Giorgio de Chirico non può certo definirsi un pittore ipermoderno. Eppure, il suo percorso artistico può fornirci una chiave di lettura interessante per leggere il nuovo disagio del nostro tempo, in contrapposizione a quello più facilmente riscontrabile fino a qualche decennio fa.
Questa considerazione mi sovviene a partire dall’utilizzo di uno stesso termine, l’enigma, in riferimento ad almeno due tipologie differenti di dipinti dell’artista. Il contrasto mi è risultato immediatamente evidente nel percorso espositivo allestito a Palazzo Reale a Milano, nell’accostamento spazio-temporale di due quadri. Il primo è, necessariamente, il “Portrait de l’artiste par lui même”, Autoritratto del 1911 (Fig. 2), recante la frase latina “Et quid amabo nisi quod aenigma est?”, ovvero “E che cosa dovrei amare se non l’enigma?”. Allo stesso modo viene definita enigmatica la piazza porticata “di un silenzio assordante” di “L’ Enigma di una giornata” del 1910 (Fig. 5). Già in queste poche righe (e prima ancora, nelle due immagini), possiamo in realtà individuare una differenza abissale. Nella prima, troviamo in primo piano un uomo pensieroso, ritratto nella sua imperfezione, che si domanda qualcosa, e in particolare si domanda dell’amore. La domanda e l’amore, due concetti che, perlomeno in psicoanalisi, denotano al contempo la presenza di un altro e della sua mancanza - o per meglio dire, di un soggetto e il suo desiderio di qualcosa d’altro, a partire da una mancanza. Nella piazza, invece, l’uomo è quasi assente, in ombra, pur occupando un posto in primo piano.
Molto precisa l’immagine sonora del silenzio assordante nella piazza di “Les plaisirs du poète” (Fig. 7), che descrive il vuoto, l’assenza totale del non-luogo, in tutto il suo peso desolante, e una dimensione completamente a-temporale, se non fosse per quell’orologio, che ne scandisce l’immobilità. Desolazione che diviene angoscia in “La matinée angoissante” del 1912, (Fig. 8) dove oltre al portico vi è spazio solamente per le ombre degli edifici circostanti. Quale enigma, dunque, può trovare posto in una piazza totalmente disabitata? È questo il punto estremo da cui, paradossalmente, prende avvio la pittura metafisica di de Chirico: il vuoto inquietante che rende estraneo il mondo, dove l’uomo si trova improvvisamente smarrito di fronte al proprio stesso operato. Sensazione che indubbiamente risuona con il disorientamento che abbiamo provato di fronte alle piazze vuote del lock-down, un elemento di forte impatto con la precarietà dell’esistenza in cui siamo stati improvvisamente catapultati, che tocca prepotentemente una dimensione di senso, sulla quale egli si interrogava già oltre un secolo fa.
Nei quadri successivi, a partire dall’”Ariadne” (Fig. 6), iniziano a comparire nelle piazze i primi monumenti di figure umane: improvvisamente, come lo stesso de Chirico afferma, <<[…] la luce e le ombre, le linee, gli angoli, tutti i misteri del volume cominciano a parlare>>, e la mattinata, da angosciante, diviene bella e malinconica. Attraverso le statue, l’artista incomincia ad abitare gli spazi desolati del suo tempo con elementi del proprio passato storico e mitologico, che caratterizzavano i primi dipinti, antecedenti all’autoritratto dell’enigma.
Il classicismo, grazie alla sua pregnante e simbolica capacità di rendere eterno il passato, gli consente di recuperare un saldo punto di riferimento nel presente a partire dalle sue radici, per ritrovare un senso laddove l’estrema ricerca dell’archetipo svuota le impalcature della propria anima. C’è un’enorme differenza fra questi portici e le magnifiche colonne dei templi greci, che si distinguevano per lo stile soggettivo del luogo di provenienza, oltre che rappresentare i luoghi abitati per eccellenza, in quanto dedicati agli dèi. Lo stesso de Chirico, al di là dei dipinti in cui la dimensione spirituale è presente in una forma più che altro mitologica, come in Testa di Mercurio, in alcuni quadri arriva a raggiungere una dimensione sciamanica di questa spiritualità, come ne l’”Enigma dell’oracolo[1]” o “Il saluto dell’amico lontano”, 1916, (Fig. 1). Il suo modo di accostarsi alla metafisica, forse provocatoriamente, pone l’interrogativo: “senza spiritualità può davvero ancora esserci qualcosa oltre il mondo fisico?”. Egli porta all’estremo la separazione degli oggetti (e dei corpi) dalla propria anima, come “emblema del futuro” (o del presente), riducendoli a involucri il cui significato è osservabile solo dall’esterno, anziché costituire il senso che non solo li abita, ma li anima, appunto, ovvero conferisce loro dall’interno la forma, il movimento, l’intenzione, grazie alla sua forza generativa. Se ne “L’incertezza del poeta” (1913, Fig. 4) è possibile rintracciare qualcosa o qualcuno che, se ora non c’è, un tempo ci fu, il primo manichino de “Il trovatore” (1917, Fig. 9) rappresenta magnificamente lo svuotamento dalle passioni, dalla curiosità e dal pensiero autonomo dell’uomo moderno. Il titolo dell’opera, infatti, si rifà al concetto provenzale di Gaya scienza, che Nietzsche, importantissimo riferimento nella poetica del pittore, aveva mutuato in “Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è” per valorizzare la libertà del proprio pensiero come unica forma di conoscenza. La poetica inventiva del trovatore, infatti, si contrappone al <<patetismo puramente italiano>> (de Chirico, 1920): il manichino non è molto distante dal cyborg della nostra era - il primo manichino, perlomeno, la cui posa non denota alcunché di emotivo. Anche nei dipinti che rappresentano semplici oggetti e momenti del quotidiano “familiare”, declinazione dell’argomento ripresa anche dal collega Carlo Carrà in “Madre e figlio”, si percepisce una sorta di svuotamento, a partire da uno sguardo distante, come de-realizzato. Come nell’opera teatrale “La Cantatrice Calva” di Ionesco, la normalità portata all’estremo si rivela nella sua vuota assurdità.
Ecco dunque che perfino dei biscotti, nel quadro “Il pomeriggio soave” (Fig. 10), si riducono a nient’altro che soprammobili, incorniciati e appesi su uno sfondo metafisico: <<Un biscotto, l’angolo formato da due pareti, un disegno evocante un che della natura di un mondo scimunito e insensato che ci accompagna in questa vita tenebrosa>>, commenterà infatti de Chirico
La metafisica e il classicismo (più tardi accompagnato anche da un <<romanticismo>> in senso ampio) iniziano dunque, prima di tutto ad alternarsi, e in seguito a interagire e influenzarsi l’un l’altra in una continua tensione, assumendo varie connotazioni che produrranno contenuti di volta in volta inaspettati e in evoluzione.
Nell’”Interno metafisico con faro” (1918, Fig. 11), ad esempio, il paesaggio è incastrato in una cornice claustrofobica, che fa da contrappeso all’agorafobia delle piazze iniziali, mentre in “Mélancholie hermétique” (1918-19, Fig. 12) la testa di Mercurio osserva gli oggetti rimanendo esclusa dalla scena. Questo processo arriva a pervadere la figura stessa dell’artista, prima nell’”Autoritratto” del 1920 (Fig. 13), in cui il suo volto è dipinto di fronte a una statua che lo rappresenta, e successivamente in quello del 1924-25 (Fig. 14) in cui non sappiamo se la persona si stia pietrificando, o se il marmo si stia umanizzando. È interessante l’analogia coi nativi digitali della nostra epoca nei quali il confine tra umanità e tecnologia non è più così facilmente individuabile.
Se guardiamo il percorso del pittore in prospettiva, però, il suo incontro con il classicismo si rivela una risorsa preziosissima e salvifica, che grazie alle sue radici riesce ad accorgersi precocemente del vuoto di senso verso cui si dirige la società industriale, e a riempirlo di antichi significati, senza per questo rimanere ancorato al passato. La ricostruzione delle origini, a partire dall’incontro con le statue greche, costituisce il modo elettivo, e forse l’unico, per dirigersi verso un futuro degno di essere vissuto, grazie a un’operazione diametralmente opposta a quella della digitalizzazione del cyborg, che tende ad assumere una posizione sempre più a-storicizzata.
Negli anni Venti, il manichino incontra finalmente la statua in diversi quadri, il più emblematico dei quali, ai fini del nostro discorso, è sicuramente il “Figliuol prodigo” (1922, Fig. 15), in cui la solidità marmorea del padre sostiene la giovane vivacità del figlio, che, pur essendo appunto un manichino, verso di lui si protende ritrovando un barlume di interiorità.
Anche Ettore e Andromaca subiscono una sorte simile: se nel quadro del 1917 (Fig. 18) sono entrambi manichini, nelle due versioni del 1923 e del 1924 (Fig. 20), Andromaca riesce a ridare un posto ai suoi sentimenti divenendo una statua marmorea possente, che cerca disperatamente di trattenere Ettore dal partire per una guerra insensata e una morte certa.
Finalmente, nell’”Archeologo” (1927, Fig. 17) accade qualcosa di stupefacente: grazie all’imponente lavoro di scavo sinora compiuto – interessante, a tal proposito, il paragone freudiano del lavoro dell’analista con quello dell’archeologo - il manichino comincia ad assumere sembianze più umane, liberandosi dalla frammentarietà delle giunture. Comincia a emergere il suo mondo emotivo, incredibilmente a livello viscerale, cioè nel corpo. Non a caso, nello stesso periodo infatti, compare per la prima volta anche il sogno (“Généalogie d’un rêve”, 1927-28, Fig, 16), testimonianza dell’emergere di quell’inconscio che, se da un lato spossessa l’uomo dal proprio egocentrismo, dall’altro restituisce un posto di primo piano alla sua soggettività. Proprio l’inconscio, in effetti, rappresenterà l’elemento caratterizzante del surrealismo, e sebbene il pittore abbia sempre voluto distanziarsi da questa corrente, i surrealisti stessi lo hanno indicato come loro precursore. È proprio percorrendo questa strada, evidentemente, che i suoi autoritratti riacquisteranno colore, come se la scoperta dell’inconscio fosse riuscita a portarlo gradualmente a riappropriarsi di se stesso.
Non dobbiamo però illuderci che lo stesso processo sia riuscito a pervadere anche il mondo esterno: come un Socrate che lascia gli ateniesi dormienti alla fine del Convivio, egli si fa carico di se stesso, ma non può svegliare un mondo che non vuole sapere. Se anche nelle stanze colloca ora templi ed elementi naturali, e negli spazi aperti compaiono i cavalli, simbolo per eccellenza dell’emotività spontanea del corpo, questi rimangono comunque ridotti a oggetti, a statue, a giocattoli, come pure i gladiatori (“Les gladiateurs”, 1929, Fig. 19), “impegnati in una lotta dalle pose fisse”, una sorta di insensato dinamismo statico. I personaggi sono svuotati da una qualsiasi intenzione, come fossero fatti di gomma. Lo stesso aspetto “finto” sembra caratterizzare anche i “Bagni misteriosi” (1935 e 1936, Fig. 21), nei quali l’artista sembra osservare, come dall’esterno, i bagnanti che si immergono in un’acqua di legno, come se tutto l’intorno, uomini compresi, avesse mantenuto l’aspetto estraniante delle piazze del primo periodo. Non c’è posto, dunque, per l’uomo, in una società che si prepara alla cibernetica: nel “Ritorno al castello” (1969, Fig. 22) il cavaliere d’ombra ricorda un Don Chisciotte che combatte unabattaglia impossibile; le “Muse inquietanti” (fine anni Cinquanta, Fig. 24) non sono altro che manichini travestiti, e al “Trovatore stanco” (1970, Fig. 23) non resta che deporre la lira sul pavimento.
In questo scenario inquietante, se oltre un secolo fa un artista del calibro di de Chirico ha dovuto fare appello alla forza delle sue origini per compiere un viaggio lungo una vita per ritrovare sé stesso, il compito della clinica di oggi non solo non può ridursi a occuparsi del sintomo, ma spesso non può nemmeno limitarsi a un’indagine perché la società digitale riduce i soggetti a manichini. Lo stesso de Chirico è dovuto passare dal corpo e dalla relazione per riabitare il manichino e se stesso, per far riemergere il sogno. Non è paragonabile l’angoscia attuale con l’enigma. È in questo scenario inquietante che dobbiamo leggere l’angoscia del vuoto in cui il soggetto odierno fa sempre più fatica a trovare un posto, esperienza molto dissimile da una difficoltà a districarsi in dinamiche ingarbugliate ma presenti. È la storia che salva l’uomo de Chirico, ma le nuove generazioni spesso non hanno la possibilità di attingere a una simile risorsa perché nate, un secolo più tardi, in un’epoca in cui il digitale rende il mondo a-storicizzato. E come de Chirico è ripartito dal suo stesso vuoto per ricostruirsi, allo stesso modo il clinico di oggi, spesso, soprattutto con i ragazzi, deve ripartire innanzitutto da qui per instaurare una relazione come quella della statua con il manichino, che costituisce la svolta per ricominciare a prendere possesso di se stessi.
Tornando alla questione iniziale, ovvero alla differenza fra enigma e angoscia, ossia la differenza fra una presenza mancante e il vuoto di senso, questo è il punto nodale su cui possiamo riflettere anche alla luce del percorso del pictor Optimus. Egli non ci conduce attraverso una dialettica fra ragione e sentimento, in un conflitto fra la pulsione e il Super-Io della Legge, né propone ideali romantici da raggiungere. Non troviamo una contrapposizione fra desiderio e censura, quanto fra presenza e assenza dell’altro. Anche nei quadri più “popolati”, i personaggi sono fra loro isolati, come se avessero uno smartphone prima ancora che il computer fosse stato inventato. Essi non si relazionano fra loro, come potrebbe avvenire in un quadro di Jacques-Louis David, nel quale dalla scena dipinta si può ricostruire l’avvenimento storico vissuto dai protagonisti, come ad esempio nel “Giuramento degli Orazi”. D’altro canto, la dimensione onirica non raggiunge lo status di inconscio come avviene nel surrealismo. Freud non aveva ancora finito di scoprire l’inconscio, che già de Chirico ne mostrava l’assenza. Inconscio che Lacan definirà più avanti il discorso dell’Altro: ed è proprio questo altro che manca nei quadri di de Chirico del primo periodo.
Come uno psicosomatologo ante-litteram, de Chirico, per ritrovare un senso, riparte dai corpi, i quali acquistano sembianze differenti – ora di manichino, ora di statua, ora di gomma, ora animalesche, ora umane – a seconda del loro essere abitate da una dimensione di senso, sia esso di matrice spirituale, mitologica, relazionale o emotiva. Alcuni elementi spirituali fanno capolino qua e là sotto forma di dettagli: l’occhio da cercare in ogni cosa, l’oracolo, la maschera africana nelle muse inquietanti, non sono altro che relitti, come le Muse ridotte a manichini senza testa, che dell’ispirazione artistica indossano ormai soltanto un abito. Già molti decenni prima dell’avvento del digitale, non soltanto l’uomo era alienato, ma lo erano perfino le Muse, come a ricordarci che il malessere del nostro tempo non va attribuito esclusivamente alla tecnologia o al coronavirus, che pure contribuisce a cambiare enormemente i nostri corpi, prima che le nostre menti, ma nasce decisamente prima. Ma forse proprio questo punto di massima tensione, data da una presenza imponente in un ambiente estraneo, su cui l’artista ci lascia, se di certo non ci offre una soluzione, ci pone senz’altro di fronte a una scelta, e dunque a una possibile, seppur faticosa, strada da percorrere. Ma d’altra parte, qual è l’alternativa?
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